Al
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Al
MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Al
MINISTRO DELL’INTERNO
Al
MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
AL
MINISTRO DELLE ATTIVITà
PRODUTTIVE
LETTERA
APERTA
Mi
chiamo Rodolfo Marusi Guareschi, nato a Salsomaggiore Terme (PR) il 20 gennaio
1950, residente in Parma, strada Argini Enza n. 103, con attuale dimora in Sant’Ilario
d’Enza (RE), via XXV Aprile n. 2.
Sono
legale rappresentante di diverse imprese in Italia ed all’estero, una delle
quali, Maguro S.p.A., con capitale di lire mille miliardi, ha elaborato e
promosso fin dal 1995 un progetto economico nazionale per l’occupazione;
un’altra società, Avatar S.p.A., holding di partecipazioni con capitale di 155
miliardi di euro, sta promovendo un insieme di progetti nell’ambito di un
gruppo internazionale.
Da
trent’anni lavoro per realizzare iniziative economiche, alcune delle quali
hanno avuto un certo successo. Non frequento alcun esponente di rilievo del
mondo economico, finanziario e politico nazionale. Ho lavorato sempre e solo
secondo le regole dettate dalla Costituzione e dalle leggi.
Ciò
nonostante ho dovuto sostenere diverse contestazioni da parte di chi dovrebbe
applicare le leggi e diverse condanne da parte di chi dovrebbe farle osservare.
Quale presidente di una società cooperativa posta
in liquidazione coatta amministrativa nel 1978, sono stato condannato dal
Tribunale di Parma per reati fallimentari nonostante l’assenza della
dichiarazione di stato di insolvenza che avrebbe dovuto essere elemento
costitutivo del reato e la Corte d’Appello di Bologna che ha riformato la
sentenza di primo grado non ha rilevato la carenza.
Quale presidente di un’azienda ceramica di Parma
fallita nel 1984 sono stato condannato dal suddetto Tribunale per bancarotta
documentale nonostante il curatore abbia potuto ricostruire il patrimonio ed il
movimento degli affari proprio in base ai documenti contabili ed alle mie
informazioni. Anche in questo caso, la Corte d’Appello di Bologna ha riformato
la sentenza di primo grado senza tuttavia rilevare l’insussistenza del reato.
Sono stato condannato dal Tribunale di Parma per
calunnia perché ho denunciato un fornitore della suddetta azienda ceramica che
aveva posto all’incasso un assegno di poco superiore a 9.000.000 di lire che
gli avevo dato in garanzia.
Ho riportato sentenze di condanna emesse dai
Tribunali di Parma, Reggio Emilia e Modena, poi annullate per cassazione o
revocate ex art. 673 c.p.p., per aver emesso ed utilizzato fatture per
operazioni inesistenti, pur avendo compiuto le operazioni sulle quali avevo
ottenuto formale silenzio assenso del Ministero delle Finanze.
Dal 4 al 9 settembre 1999 sono stato ingiustamente
detenuto in seguito ad una ordinanza della Corte di Appello di Bologna (in
funzione di giudice dell’esecuzione), poi sospesa perché ritenuta illegittima
dalla stessa Corte d’Appello ed infine annullata per lo stesso motivo per
cassazione.
Il 3 ottobre 2000 sono stato oggetto di una
perquisizione disposta dal Pubblico Ministero di Bologna che aveva ravvisato un
mio concorso in furto in seguito ad intercettazioni di conversazioni
telefoniche attraverso le quali ero stato informato di un tentativo di furto da
uno sconosciuto sedicente funzionario di banca che avrebbe voluto sottrarre
fondi pubblici al Banco di Sicilia, dopo che della vicenda mi ero occupato al
solo scopo di verificare se il furto fosse stato davvero possibile e, in caso
positivo, di sventarlo e dopo che, avendo ritenuto impossibile il furto ed
avendo svolto diverse attività per impedire che il sistema bancario fosse coinvolto
nel tentativo, avevo chiuso ogni rapporto.
Il
17 gennaio 2001 è stata eseguita nei miei confronti una ordinanza di custodia
cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Palermo (al quale erano stati
trasmessi gli atti per competenza) sulla base di presunti gravi indizi di reato
associativo, tratti dagli stessi elementi per i quali avevo subito la
perquisizione del 3 ottobre 2001, ritenuti poi non provati dalla sentenza di
annullamento per cassazione del 21 giugno 2001.
La
Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Bologna ha
emesso nei miei confronti, il 16 gennaio 2001, un provvedimento di cumulo e,
senza nemmeno chiedere al giudice dell’esecuzione la revoca di un indulto
applicato ad una sentenza oggetto del cumulo, il 18 gennaio 2001 ha emesso un
ordine di esecuzione, poi sospeso solo perché la pena residua era inferiore ai
tre anni.
Il
20 settembre 2001 la Corte d’Appello di Bologna (in funzione di giudice
dell’esecuzione), alla quale avevo chiesto l’annullamento del suddetto ordine
di esecuzione, pur riconoscendo l’erroneità del provvedimento di cumulo del 16
gennaio 2001, da cui non era stato detratto il beneficio di un indulto, ha
rigettato la mia richiesta di annullamento dell’ordine di esecuzione del 18
gennaio 2001 ed ha semplicemente trasmesso gli atti alla Procura Generale la
quale, subito dopo, ha rifatto il provvedimento di cumulo e, ancora senza
autorizzazione di revoca di un beneficio concesso in sentenza, ha confermato
l’ordine di esecuzione.
Dal
15 marzo 1989, le società che rappresento sono oggetto di reiterate verifiche
fiscali, dalle quali hanno avuto origine i procedimenti penali per reati
fiscali sopra citati e numerosi avvisi di accertamento, quasi tutti annullati
dai giudici tributari le cui uniche decisioni definitive sono quelle a favore
delle società ricorrenti.
Nel
corso di verifiche fiscali compiute nel 1999/2000 al solo scopo di non
rimborsare IVA a credito siamo entrati in possesso delle prove concrete che
dimostrano l’esistenza di un teorema secondo il quale impunemente l’avrei
sempre fatta franca e dovrei dunque essere incastrato per questo fatto. Per
sfuggire agli effetti di questo teorema ho dovuto costruire un sistema di
imprese parallelo che non risulta in alcun modo collegato a me o ad imprese che
rappresento ufficialmente.
Il
14 aprile 2000, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Verona
ha disposto un sequestro penale «totale» a carico di una ventina di società che
rappresento in base ad indizi su fatti che il 26 aprile 2000 Tribunale del
Riesame di Verona, nel dichiarare l’illegittimità del provvedimento di
sequestro, ha ritenuto non costituire reato, così come la Cassazione che ha
rigettato il ricorso presentato dallo stesso P.M. contro l’ordinanza di
annullamento del sequestro, nonostante il quale, il suddetto Procuratore della
Repubblica ha poi autorizzato la Guardia di Finanza di Verona ad estrarre copia
dei documenti illegittimamente sequestrati.
In
seguito ad un esposto presentato ai primi di novembre 2000 dall’allora deputato
Alfredo Mantovano, il 2 febbraio 2001 un Sostituto Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Lecce ha disposto un sequestro penale a carico della
società Texma S.p.A (mentre stava per realizzare un nuovo investimento a
Gallipoli), a carico dei suoi soci, che mediante un rapido intervento
finanziario avevano evitato la revoca di un contributo concesso nel 1998,
nonché a carico di 456 imprese promosse da Maguro S.p.A. che il 31 ottobre 2000
avevano presentato progetti di investimento per lire 22.500 miliardi al Sud
sulla legge n. 488/92.
Con
lettera datata 3 maggio 2001, la Divisione Polizia Anticrimine presso la
Questura di Parma ha trasmesso al Tribunale di Sorveglianza di Bologna
informazioni del tutto false non solo su di me ma anche su miei familiari e per
questo motivo ho presentato esposto documentato alla Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Parma la quale a tutt’oggi, nonostante l’evidente
urgenza, non ha ancora preso alcun provvedimento.
È
la stessa Procura della Repubblica che, l’indomani della costituzione delle 456
società (metà con sede a Parma e metà con sede a Reggio Emilia) che hanno poi
presentato i nuovi progetti di investimento, invece di accelerare le procedure
di omologa, come aveva fatto il Tribunale di Reggio Emilia, ha aperto un
procedimento penale nei confronti miei e dei notai che avevano rogato gli atti
costitutivi, ritardando così la data delle omologhe presso il Tribunale di
Parma, nonostante gli interventi che all’epoca furono compiuti dagli uffici
della Presidenza della Repubblica.
È
la stessa Procura della Repubblica che ha rifiutato di intervenire quando mi
sono prestato, insieme alla Guardia di Finanza di Parma, per bloccare una
ingente somma che stava per essere oggetto di riciclaggio.
In
relazione alla citata lettera della Questura di Parma ho poi appreso della
esistenza di una nota informativa del Ministero dell’Interno nella quale è
dichiarato che avrei contatti con esponenti dell’area mafiosa e rapporti con un
noto pregiudicato palermitano trapiantato in Emilia, contatti e rapporti
rispetto ai quali non conosco né di chi né di che cosa si stia parlando.
Nonostante il versamento di quasi 16.000 miliardi
di lire da parte dei soci delle 456 imprese che hanno presentato progetti sulla
legge n. 488/92, le domande sono state tutte escluse, con evidenti pretesti
rilevabili dagli atti, dal sistema bancario e dal Ministero dell’Industria.
In sede di ricorsi giurisdizionali contro tali
esclusioni i legali delle banche e del Ministero dell’Industria hanno naturalmente
richiamato il fatto che il rappresentante legale della società che aveva
promosso le nuove imprese fosse stato arrestato per reati associativi,
insinuando altresì che le risorse messe a disposizione dai soci delle società
richiedenti potessero avere origini mafiose.
Nei fascicoli processuali relativi a tutte queste
iniziative figurano le pagine dei giornali con la notizia del mio
coinvolgimento nella vicenda del Banco di Sicilia. A tanti non è parso vero di
poter utilizzare questa vicenda per mettere alla berlina e denigrare chi non ha
mai accettato di essere coinvolto con il potere e che (forse solo) per non
essersi adeguatamente difeso, ha riportato sentenze di condanna per bancarotta,
calunnia e reati finanziari inesistenti rispetto alle quali sono pendenti
richieste di revisione.
Nel
mio caso, parlare di accanimento persecutorio, sia giudiziale sia da parte di
altri organi dello stato, sarebbe pleonastico. Qui si tratta di un vero e
proprio terrorismo di stato, mediante il quale si vuole ad ogni costo impedire
l’esercizio di diritti costituzionali di intraprendere e di produrre.
Mi
chiedo se certi magistrati abbiano agito in modo tanto ingiusto per conquistare
le prime pagine dei giornali per protagonismo, per motivi di carriera, per logica
di lobby, per mancanza delle libertà di determinazione pregiudicate da situazioni
locali, per leggerezza o per
mera carenza delle idoneità previste dall’ordinamento giudiziario.
Quel
che è certo è che nei miei confronti sono stati commessi (ed è stato dimostrato)
troppi errori da parte di servitori dello Stato. Errori che sono costati tempo,
energie, risorse e soprattutto immagine ed onore. Troppo.
Se
si considera che casi del genere siano accaduti solo a me, io mi difendo da
solo. Ma se non fosse così, quanti sono in grado di farlo?
Credo
che quanti hanno responsabilità politiche ed istituzionali di accertare origini
e cause di errori del genere dovrebbero farlo. In contraddittorio fra le parti
e sulla base dei procedimenti previsti dalle nostre leggi.
Purtroppo l’esperienza mi induce a ritenere improbabile tali accertamenti. Si
dirà che spettano agli organi giurisdizionali. È vero. Ma se un cittadino viene
reiteratamente e per decenni accusato e condannato ingiustamente, e se
occorrono poi anni per dimostrarlo, si può davvero parlare di libertà? Oppure
non si dovrebbe invece constatare che ci troviamo tutti in una sorta di libertà
provvisoria che può essere sospesa quando e come aggrada a chi non accetta che
tutti siano uguali davanti alla legge?
A che serve affermare che l'ordinamento
giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute se poi nei fatti le norme vengono applicate secondo
il libero convincimento di chi spesso non le conosce e quasi sempre si conforma
ai contesti politici e sociali del momento in cui decide?
Settembre
2001.
Rodolfo
Marusi Guareschi